20 Mar 2021 - cultura
Come psicoanalista vorrei farvi partecipe del mio interesse per Qoèlet a partire da due aspetti: la denuncia delle illusioni, soprattutto la denuncia dell’illusione della felicità, e la valenza provocatoria del suo messaggio. Per valenza provocatoria intendo qualcosa che ha a che fare con il significato etimologico della parola: “vocare” in latino significa chiamare e pro-vocare significa quindi chiamare a qualcosa. Il prototipo della provocazione è la figura della sentinella che ha il compito di pro-vocare, cioè di chiamare a svegliarsi e a difendersi dal pericolo di un nemico.Qoèlet è provocante esattamente in questo senso, perché ci chiama a… Qualcuno potrebbe dire: a pensare. Troppo poco. Noi non facciamo altro che pensare tutto il giorno: pensiamo a nutrirci, ad andare al lavoro, a stare insieme con gli altri eccetera. No: Qoèlet non ci chiama a pensare ma a ri-pensare: a riflettere su come pensiamo. Questo lavoro di ripensamento in greco ha un nome preciso: si chiama metànoia, che vuol dire cambiare (metà vuol dire cambiamento) e Nous pensiero: cioè cambiare modo di pensare. In latino metànoia è stato tradotto con la parola conversio, conversione. Purtroppo, la parola conversione ha perso per noi la sua valenza originale di natura laica e ha finito per assumere una valenza esclusivamente religiosa: conversione per il senso comune riguarda la decisione di credere nella verità di una dottrina religiosa: convertirsi al cristianesimo piuttosto che all’Islam.
Non è così per noi e per Qoèlet: convertirsi significa per lui e per noi decidere di cambiare modo di pensare, e in questo senso che vi invito a leggerlo: è un invito costante a convertirsi, a mantenere la capacità di ripensare le nostre certezze per continuare a essere capaci di farci delle domande vere e di rinunciare alle risposte facili che, se non sono false, sono spesso fasulle.
Per quanto riguarda la denuncia delle illusioni, niente di più interessante per uno psicoanalista in quanto questo è stata ed è la psicoanalisi: un ripensamento di chi siamo, di cosa vuol dire essere soggetti, e una denuncia del nostro modo di scambiare ideali con illusioni.
C’è un’opera di Freud che è proprio mirata a questo obiettivo. Si intitola: “L’avvenire di un’illusione”, dove parla dell’ideale religioso che può prendere la forma di un’ illusione (di questo vi dirò qualcosa tra poco). Prima vi segnalo i punti più significativi sui quali la psicoanalisi con Freud ci ha permesso di operare una metànoia, un cambiamento di pensiero. Sono cose che probabilmente conoscete e per questo ve li nomino solamente senza argomentarle.
1: Primo ripensamento: il soggetto, cioè noi, non è un “individuo” (una entità “non divisa”, un atomo, in greco) ma è una “realtà composita”. Non c’è solo l’Io ma ci sono altre due istanze: l’Es, la forma primaria del soggetto, e il Superio, l’istanza della coscienza morale, che ha il compito di indicare i valori e di monitorare l’Io.
2. Secondo ripensamento: non esiste solo la coscienza ma esiste anche l’inconscio, cioè non è più vera l’affermazione cartesiana del “cogito ergo Sum”, dove il cogito era la misura della soggettività disegnata col perimetro della coscienza.
3. Terzo ripensamento: non siamo mossi da un’energia vitale semplice e unica, ma siamo spinti da due pulsioni, quella di vita (Eros) e quella di morte (Thanatos), che danno origine a degli impasti dove cambiano le combinazioni di impulsi costruttivi e di impulsi distruttivi.
4 Quarto ripensamento: l’Io non è padrone in casa propria. Cioè la funzione dell’Io non è quella di padrone ma di servitore: e non di due padroni come Arlecchino, ma di ben tre padroni: l’Es che reclama la soddisfazione incondizionata e immediata di tutte le voglie; il Superio che reclama il rispetto della legge e punisce le trasgressioni e, terzo, la realtà esterna che richiede di essere tenuta in considerazione se non si vuole andare a sbattere contro il muro.
Veniamo adesso all’altro aspetto, quello relativo alla denuncia della psicoanalisi sulle illusioni: questa denuncia passa attraverso la proposta di ripensare il nostro rapporto con i valori ideali, nel senso di denunciare la presenza di una vera e propria idolatria degli ideali, che potremmo chiamare, con un neologismo, una”idealelatria”. In greco latrèia significa servizio, e in particolare il servizio di culto: idolatria significa offrire un servizio di culto a un ”eidolon”, un idolo, cioè un’immagine o un oggetto che viene scambiato come Dio, qualcosa dal valore assoluto.
Parlare di idealelatria significa quindi mettersi al servizio degli ideali, sviluppare un culto verso gli ideali pensandoli non come dei mezzi ma dei fini, fare degli ideali qualcosa che ha un valore assoluto di fronte al quale l’uomo si mette in posizione di servizio di culto in modo tale per cui: “non è il sabato che è fatto per l’uomo ma è l’uomo che è fatto per il sabato”.
Questa è l’idolatria degli ideali: l’uomo non si serve degli ideali ma sì “asserva” agli ideali. Facendo così, dice Freud, l’uomo (parla a nome dell’uomo dell’Occidente, cioè della nostra civiltà occidentale quella che in tedesco si nomina come Kultur) l’uomo non si rende conto di trasformare gli ideali in illusioni.
Quand’è che siamo in presenza di un’illusione, dice Freud? Quando, nel giudicare qualcosa, il desiderio prevale sulla capacità di riconoscere la realtà dei fatti. Si finisce così per credere che esista qualcosa nella realtà mentre esiste solo nella nostra immaginazione. Se, ad esempio, nel rapporto con una donna faccio prevalere il mio desiderio di essere riamato, rispetto al riconoscimento del dato di realtà di lei che mi dice che non mi ama, io mi illudo. In altre parole, l’illusione è sempre un misconoscimento della natura delle cose, della realtà.
Ora, venendo ai nostri ideali,( qualsiasi ideale: la giustizia, la libertà, la fraternità, l’amore del prossimo, eccetera), qualsiasi ideale: se, nel nostro rapporto con loro, noi facciamo prevalere il nostro desiderio che gli ideali si possano completamente e pienamente realizzare e non vogliamo riconoscere il dato di fatto che tutti gli ideali non si possono mai realizzare completamente, ebbene, se li pensiamo come possibili, noi li trasformiamo in illusioni. Perché? Perché tutti gli ideali sono realmente da considerare dell’ordine dell’impossibile, nel senso che non possono e non potranno mai tradursi completamente in realtà.
Ma, e qui sta la cosa importante, considerare gli ideali dell’ordine dell’impossibile non vuol dire rinunciare a utilizzarli e a riconoscerne il valore perché possono svolgere la funzione importante di indicarci la direzione da prendere e da tenere, in vista della nostra sopravvivenza individuale e sociale.
C’è da aggiungere però che possono svolgere questa funzione importante di guida a patto di considerarli come delle “finzioni ideali“, dove il termine finzione non significa fare finta di, ma il suo senso deriva dal linguaggio della epistemologia scientifica per la quale, quando lo sperimentatore entra in laboratorio e imposta il suo lavoro di ricerca, formula una fictio, cioè un’ipotesi che indica il percorso per raggiungere un obiettivo della scienza, che sa che comunque in assoluto non potrà mai essere completamente raggiunto: non sarà mai possibile tradurre nella realtà l’ideale della conoscenza completa.
In questo senso Freud nomina gli ideali come finzioni ideali e mette in crisi il modo comune di intendere alcuni ideali, come per esempio la normalità psichica, derubricandoli dallo statuto di possibilità di essere realizzati, e assegnandoli allo statuto di impossibilità di essere realizzati ma da considerare utilmente come indicatori di percorso.
Dice letteralmente in un suo scritto: “L’Io normale, come la normalità in genere, è una finzione ideale, e quello che si presenta nella realtà sono delle forme più o meno vicine ai due estremi che sono quelli di una completa maturità psichica da una parte e la psicosi dall’altra”. La normalità psichica quindi è una finzione ideale, cioè un’ipotesi di pensiero che si colloca sempre provvisoriamente sul continuum compreso tra questi due estremi.
Lo stesso vale per un altro valore ideale che Freud prende esplicitamente in considerazione nella sua opera importante dal titolo: “Il disagio della civiltà”. In questo scritto si interroga sull’ideale dell’amore del prossimo (ricordate il comandamento: “ama il prossimo tuo come te stesso anche se ti è nemico”, che ha
ricevuto la sua formulazione laica nell’imperativo kantiano: non fare al tuo prossimo quello che non vorresti fosse fatto a te) e argomenta così: se noi considerando l’ideale dell’amore del prossimo facciamo prevalere il nostro desiderio (di vivere tutti insieme in pace volendoci bene) sul riconoscimento della realtà (che ci mostra che questo non si dà, perché ci sono sempre stati e sempre ci saranno conflitti, guerre, liti, aggressioni), noi finiamo per trasformare l’ideale in un’illusione (vi ricordate: illusione è il prevalere del desiderio sul riconoscimento della realtà). Questo vuol dire non dobbiamo dare valore all’ideale dell’amore del prossimo? No, ma ci conviene pensarlo come una finzione ideale, come qualcosa a cui tendere sapendo che che non potremo mai incarnarlo né individualmente né socialmente in maniera completa e perfetta. Questa denuncia è costata cara alla psicoanalisi perché, dice Freud, “ci hanno accusato di non credere negli ideali perché abbiamo denunciato le illusioni”. A Freud, come qualsiasi psicoanalista, interessa partire verificando le ricadute che queste illusioni hanno sull’economia psichica del soggetto.
Quali sono queste ricadute? Costose, quando non addirittura disastrose. Perché? Perché se io credo in coscienza che l’ideale dell’amare il prossimo lo posso realizzare, allora mi sentirò in dovere di farlo e, ogni volta che, facendomi l’esame di coscienza, verificherò uno scarto tra il mio reale e il mio ideale, questo scarto per me sarà avvertito come una colpa (o un peccato) e non potrò fare a meno di sviluppare un’angoscia da senso di colpa che, per essere eliminata al fine di recuperare la pace della mia coscienza, mi chiederà di pentirmi, di chiedere perdono, di proporre di non sbagliare più, di fare una penitenza per espiare la mia colpa.
Questo processo, che chiamiamo processo della coscienza morale della colpa, è un processo che richiede un notevole dispendio di energie. Freud si chiede: a chi giova? La risposta è: all’interessato, all’Ego coinvolto nella vicenda della colpa, del pentimento e dell’espiazione della colpa. Questo, dice Freud, è la conferma che stiamo attivando un’economia psichica centrata sull’Ego: è un’economia egocentrica: io ho sbagliato, io mi sento colpevole, io chiedo perdono, io propongo di non farlo più
e io faccio penitenza per espiare la mia colpa.
Ma, (e qui vi parlo io tirando le conclusioni che Freud non ha esplicitamente tratto del suo pensiero), ma, se la colpa per non aver amato il prossimo è da considerare come una ferita fatta al prossimo (non lo ho amato veramente e quindi, in misura più o meno grave, che può andare dal semplice fatto che l’ho insultato, l’ho colpito, l’ho derubato, non l’ho soccorso o addirittura l’ho ucciso, l’ho ferito, danneggiato) in questo processo egocentrico della morale del senso di colpa, che spazio c’è per il riconoscimento e la riparazione della ferita fatta all’altro? Questa riparazione praticamente non c’è o, se c’è, si limita al massimo a chiedere perdono che, a ben vedere, è una richiesta che ricade ancora sull’altro che, oltre ad essere stato ferito, è chiamato anche ad assumersi il compito di perdonare.
Questo modo di utilizzare la nostra risorsa della coscienza morale come coscienza morale della colpa risulta chiaramente non conveniente per chi ha subìto il danno ma, e qui sta il punto, non è conveniente neanche per chi lo ha provocato perché, alla fine del percorso espiatorio, sappiamo per esperienza che il semplice fare il proposito di non farlo più non è sufficiente a evitare di ripetere la ferita all’altro in futuro.
In più, questo morale della colpa, nelle persone più sensibili spiritualmente, finirà per essere sempre più costosa perché, col passare del tempo e con il ripetersi degli scarti dall’ideale (ideale che si allontana sempre di più a misura in cui uno si affina psichicamente, spiritualmente) aumenterà sempre più l’angoscia per il senso di colpa, che non sarà più motivato solo dalle azioni, perché basteranno le semplici intenzioni per fare sentire qualcuno in colpa (pensate al caso estremo della coscienza scrupolosa). Il senso di colpa diventerà sempre più forte fino a schiacciare il bravo cristiano o il laico moralmente sensibile.
C’è infine un’altra aggravante a carico della coscienza morale della colpa: più un soggetto diventerà moralmente esigente e severo con se stesso, più diventerà un feroce moralista verso gli altri, con le conseguenze che tutti conosciamo e che vediamo tutti i giorni prendere forma negli appelli giustizialisti in Rete, che sono delle
vere e proprie forme di lapidazione farisaica: “ha peccato e va lapidata”.
Qual è l’alternativa che, a partire dal pensiero di Freud, sono arrivato a formulare e a proporvi di considerare come più conveniente? (Introduco qui criterio di convenienza come criterio etico, a patto di chiarire subito però che stiamo parlando della convenienza dell’economia della natura).La mia proposta comporta una doppia metànoia, una doppia conversione (versus in latino vuol dire direzione), cioè due cambi di direzione: il primo è quello da una prospettiva di rapporto con gli ideali dalla forma del dover essere alla forma del poter essere e, secondo, il cambio di direzione da una morale della colpa a un’etica del danno.
Vi presento la cosa sommariamente e per punti:
Primo punto: è più conveniente, nel rapporto con gli ideali, (per es. l’amore del prossimo) passare da una prospettiva di dover essere (ama il tuo prossimo sempre e pienamente e a prescindere da qualsiasi altra considerazione) a un’altra prospettiva che pensa l’ideale come finzione ideale (cioè come qualcosa che si crede dell’ordine dell’impossibile) e lo considera però come prezioso indicatore di un poter essere conveniente (ama il tuo prossimo al massimo delle tue possibilità ma tenendo conto dei tuoi talenti, delle tue forze e delle circostanze della vita). Senza questo spostamento di prospettiva rischi di trasformare i tuoi ideali da due ali per volare in tante palle al piede che ti trascineranno verso il basso.
Secondo: quando fai l’esame di coscienza e trovi uno scarto più o meno grave dall’ideale, non considerarlo come una colpa o un peccato di cui liberarti con un costoso dispendio di energie ego- centrato e narcisistico, basato sul senso di colpa, ma utilizza la coscienza dello scarto (errore peccato) come qualcosa di cui dolerti per il danno che hai provocato all’altro oltre che a te stesso e usa le tue energie per una riparazione del danno, cioè per curare la ferita dell’altro. Come? Non imputando una colpa a te stesso, senza però autogiustificarti (non volevo,, non avevo l’intenzione sono stato provocato eccetera), riconoscendo la tua responsabilità e iniziando a chiedere perdono non però con un semplice “chiedo scusa” ma con l’offerta di una riparazione concreta del danno (se ti ho offeso davanti agli altri riparo riabilitandoti di fronte agli altri, se ti ho derubato ti restituisco il maltolto, se ti ho tradito ti rinnovo il mio impegno di fedeltà eccetera) e, altra cosa essenziale, riparando il danno con l’offerta di un impegno a mettere mano per eliminare le cause che ti hanno portato a ferire, cioè un impegno a modificare le cattive abitudini, da subito e non in futuro, perché da queste dipende la tua capacità di ferire ancora.
Terzo: nel caso, altrettanto possibile e frequente, in cui qualcuno ti ferisce, è più conveniente che decida di non approfittare della ferita per fare la vittima e crogiolarti nel senso di ingiustizia per il torto che hai ricevuto, e che ti decida a rinunciare alla rivendicazione, pur legittima, scegliendo di perdonare, nel senso di non imputare una colpa a chi ti ha offeso (chi sono io per giudicarti?) pur riconoscendo la responsabilità dell’altro. Questo ti libererà dal bisogno di vendetta che, se lo manterrai, ti toglierà la libertà dello spirito per tutta la vita. Non dimenticare però che se non impari a perdonare a te stesso (come ha fatto ad esempio Pietro che ha tradito Gesù, a differenza di Giuda che si è ritenuto imperdonabile) non potrai essere capace di perdonare gli altri.
Quarto: la coscienza morale dello scarto dall’ideale, utilizzalo non per farti delle colpe sul passato ma per apprezzare la possibilità di avanzare nella direzione giusta in futuro, mettendo in conto che nessuno potrà mai arrivare alla fine del percorso (perfezione, santità) e che l’importante è camminare secondo il proprio passo, mettendo a frutto i propri talenti, senza guardare con invidia ai talenti degli altri (Vedere a questo proposito la parabola dei talenti nei Vangeli).
Concludendo, la lettura del libro di Qoèlet ha molto da dire a chi, credente o meno non importa, desidera fare pulizia con le illusioni, le false consolazioni e le vere autoafflizioni che quotidianamente ci procuriamo senza rendercene conto. E’ un vero e proprio esercizio di igiene mentale da consigliare a tutti.
Sergio Premoli