Sergio Premoli - Psicoanalista e supervisore

Sergio Premoli

La vulnerabilità


3 Mar 2024 - articoli

La vulnerabilità

Esperienze come quella della guerra, anzi delle guerre, oltre all’esperienza recente della pandemia, ci portano a riflettere sula possibilità di essere feriti e di ferire. Il concetto di ferità è strettamente legato all’esperienza della vulnerabilità. Infatti vulnerabilità rimanda alla parola latina vulnus che possiamo utilmente, con una certa forzatura semantica, legare nella seconda parte della parola al termine habilitas, abilità: vulnerabilità. La proposta che avanzo è quella di accostarci alla questione della vulnerabilità declinandola tenendo conto dei due concetti che la definiscono: quello di vulnus-ferita ma anche quello di habilitas-abilità-capacità.
Per vulnerabilità allora possiamo intendere tre cose: 1. la possibilità di essere feriti (che il senso più comune); 2. la capacità-abilità di ferire gli altri; 3. la capacità-possibilità di curare le ferite
Primo aspetto: la vulnerabilità come possibilità di essere feriti.
Le fonti delle nostre ferite possono essere due: i casi della vita (malattie, incidenti, eccetera), la natura (pensate ai terremoti), le circostanze storiche (per esempio la guerra in Ucraina), oppure, questa è la seconda fonte, possiamo essere feriti dalle relazioni con gli altri, a partire dalle persone più prossime a noi (genitori, figli, partner della coppia, amici, ecc.) che possiamo definire come ferite d’amore perché ci toccano nel tessuto della nostra economia affettiva e amorosa.
La cosa che sorprendente è che le persone più vulnerabili a questo tipo di ferite sono quelle più sensibili e il grado di sensibilità, come sappiamo, non è qualcosa che possiamo decidere più di tanto perchè dipende dal fattore primario e originario che chiamiamo temperamento. Però, quello che possiamo fare, non è tanto quello di evitare le ferite (impossibile), ma è quello di decidere che cosa ne vogliamo fare, perché, delle ferite, possiamo farne un uso molto diverso e spesso poco conveniente (per quanto riguarda il concetto di convenienza come criterio etico rimando alla riflessione in proposito contenuta nel mio libro: Di chi è la colpa?).
Ci sono due scelte poco convenienti che la psicoanalisi ci ha aiutato a capire: il vittimismo e la rivendicazione. Il vittimismo è la scelta di chi, di fronte alle ferite che riceve dagli altri e dalla vita, si mette in una posizione vittimistica, cioè le vive come ingiuste, indebite, non meritate (perché è successo a me?, non è giusto, non me lo merito) e, in questo modo, finisce per crogiolarsi nel dolore provocato dalla ferita e così, invece di liberarsene, la coltiva, la amplifica, la mantiene in vita: in una parola, ne fa un pretesto per un godimento masochistico.
È la scelta che facciamo ogni volta che quando qualcuno ci dice: “non pensarci più,passa oltre, distraiti”, noi rispondiamo: “non ce la faccio, non posso non pensarci” e così, innocentemente (non è questione di colpa) ma responsabilmente (perché non smettiamo mai di essere liberi) ci garantiamo la possibilità di soffrire, per soddisfare quello che Freud ha chiamato “bisogno di punizione”.
L’altra scelta possibile, oltre al vittimismo, è la rivendicazione: non solo non c’è un’accettazione della ferita, ma c’è la volontà di ripagare con la stessa moneta quelli che ci hanno ferito: “occhio per occhio dente per dente”.
Scelta soddisfacente? Forse. Scelta conveniente? No, perché porta a un dispendio di energie vitali a favore di una vita di mortificazioni, prima ricevute e poi date.
È possibile una terza scelta, più conveniente? Sì, è la scelta che prende il nome di perdono, inteso, per il credente, come gesto di amore doveroso (secondo il comandamento di “amare i nemici”), consistente nel perdonare dei colpevoli (quelli che ci hanno ferito) e, laicamente, per il non credente, inteso come la capacità di non imputare una colpa a qualcuno che ci ha ferito perché, pur riconoscendolo responsabile (fino al punto, se è il caso, di denunciarlo alla giustizia) non si ritiene di giudicarlo colpevole, cioè di giudicarlo come qualcuno che ha voluto farmi del male sapendo di farlo, perché, come diceva Leopardi:” chiunque si induce a offendere o ferire qualcuno facendo dispiacere o danno, non lo fa per fare male agli altri ma per fare bene a sé, il quale desiderio è naturale e non merita odio”.
Secondo aspetto: la vulnerabilità come capacità di ferire, di fare del male.
Tralascio qui le considerazioni sulla nostra capacità di ferire l’ambiente e la natura (di questo riparlerà il relatore di stasera) e mi limito a richiamare la vostra attenzione sul fatto che noi tendiamo troppo spesso a sottovalutare, quando addirittura a negare, le tante forme con le quali possiamo ferire gli altri, a partire da quelli che ci sono più prossimi. Mentre siamo pronti a sopravvalutare le ferite che riceviamo e siamo capaci di trasformare in tragedie delle semplici banalità, quando siamo noi a ferire gli altri siamo invece prontissimi a discolparci, cioè a deresponsabilizzarci del dolore che provochiamo, a minimizzare le cose: “non è poi così grave quello che ti ho fatto, non volevo, non ne avevo l’intenzione, come sei permaloso”. Ora, se è un dato di fatto che molte delle ferite che noi infliggiamo agli altri non sono frutto di una decisione consapevole ma di una leggerezza morale (e per questo possiamo ritenerci innocenti), è altrettanto vero che certi gesti, certe parole sono in grado di ferire di per sé.
E’ importante che impariamo a distinguere tra innocenza e innocuità: il fatto che possiamo ritenerci innocenti (“non ne avevo l’intenzione”) non ci esime dalla responsabilità di essere nocivi, cioè di essere in grado di fare del male, di ferire.
L’invito che vi faccio, se siete disposti a ricevere inviti non richiesti, è quello di sviluppare una maggiore sensibilità per un’etica della responsabilità, lasciando cadere il fardello inutile della morale della colpa.
Terzo aspetto: la vulnerabilità come possibilità capacità di curare le ferite.
È una capacità specifica, che ci caratterizza cioè come specie. Noi siamo allo stesso tempo gli animali capace di infliggere le peggiori ferite, perfino la ferita più grave che è la morte, anche senza una necessità di sopravvivenza ma per il solo gusto e il piacere di uccidere. Però, allo stesso tempo, siamo anche gli animali più in grado di curare le ferite degli altri: nessun animale è in grado di decidere di dare la propria vita per amore di un altro, come ha fatto ad esempio padre Kolbe ad Auschwitz, o come fanno le madri che decidono di partorire sapendo che perderanno la vita.
La figura prototipica di questa capacità di curare le ferite degli altri è quella del Samaritano del Vangelo di Luca, che ha incarnato l’imperativo, che è al contempo religioso e laico (è anche l’imperativo di Kant) che dice: “non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te, e fai agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te”.
In questo caso potremmo dire a ragione benedetta vulnerabilità, se la intendiamo appunto come capacità di curare le ferite degli altri che incontriamo sulla nostra strada.
C’è però un aspetto di questa vulnerabilità buona che vorrei segnalarvi perché è poco considerato: riguarda la possibilità, e la convenienza, di prenderci cura delle nostre ferite, oltre che delle ferite che infliggiamo agli altri. Se mi chiedete qual è il modo migliore di prenderci cura delle nostre ferite (mi riferisco alle ferite che ci provengono dagli altri), la risposta è allo stesso tempo semplice ma di difficile attuazione: il modo migliore per curare le nostre ferite è, ancora una volta, quello di perdonare, cioè di non legarcela al dito, di non tenere memoria delle offese, di non alimentare un sentimento di rivendicazione (“te la farò pagare”).Il non perdonare è il modo garantito per non permettere alla nostra ferite di chiudersi, di guarire, ma è il modo per mantenerle vive e sanguinanti fino al punto che si infetteranno e ci rovineranno la vita, la nostra e quello degli altri. Perché perdonare? mi chiederete. Perché si deve? No, il perdono per un laico non può divenire un obbligo. Si perdona perché si può e perché conviene. Si risparmiano energie vitali e si diventa promotori di vita per sé e per gli altri.
Rimane un’ultima forma di perdono, non meno importante delle altre: la capacità di perdonare se stessi, non come “autogiustificazione” o autoassoluzione dalle proprie responsabilità ma come “assoluzione” dalle proprie colpe. Se riconosciamo di essere deboli ( lo siamo per natura) , allora possiamo decidere anche di essere severi verso le nostre responsabilità (riconoscendo i danni fatti e riparandoli) , ma benevoli verso le nostre debolezze perché, se non impariamo a perdonare noi stessi, non saremo capaci neanche di perdonare gli altri. Diventeremo dei moralisti, accaniti censori dei comportamenti altrui e, facilmente, segretamente custodi delle nostre trasgressioni, cultori di una doppia morale tipica degli inquisitori di tutti i tempi.

Sergio Premoli