22 Set 2019 - articoli
Scelta di una prospettiva
Ogni discorso è forzatamente condannato a essere il frutto di una scelta di prospettiva che, per correttezza metodologica, andrebbe sempre esplicitata in modo che l’interlocutore possa nello stesso tempo aprirsi a un ascolto e rimanere libero nei confronti della possibilità di rifiutarlo privilegiando altre prospettive a lui più confacenti. Il rapporto con la verità che vincola chi propone un discorso non può essere lo stesso per chi lo ascolta, pena il fatto di trasformare ogni scambio di pensiero in una potenziate “guerra per il trionfo della verità” che finirebbe per costellare il mondo di morti e di feriti, come il passato ci insegna.
Il mio pensiero si dispone all’interno della prospettiva teorica della psicoanalisi, di cui prendo qui solo un aspetto che è funzionale all’economia dei mio discorso, lasciando sullo sfondo il quadro più generale che sono costretto a considerare come noto.
Mi aprirò la strada con una citazione, tratta da un noto scritto freudiano del 1921 dal titolo “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, dove troviamo in apertura questa importante affermazione di Sigmund Freud:
“La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità.[ … ] Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale” (Freud 1921, p.261).
A parte il suggestivo accenno all”‘altro come soccorritore” che già ci apre sul mondo della relazione di aiuto, lo scopo di questa citazione è quella di permettermi, nel prosieguo del discorso, il ricorso ai concetti di “soggetto individuale” e di “soggetto collettivo” che tale prospettiva rende possibile in quanto non colloca mai la riflessione su uno solo dei due poli, l’individuo o la società, ma la mantiene costantemente in uno spazio “tra i due” recuperando, quando parla dell’individuo, tutte le incidenze che gli provengono dal suo essere da sempre socius in un contesto storicotemporale ben preciso e, nello stesso tempo, quando parla del sociale, mettendo in luce le leggi di funzionamento psichico che richiamano in modo inequivocabile quelle dell’individuo. E’ quanto Freud indica fin dal titolo di questo scritto: l’analisi dell’Io ci permette di avanzare delle ipotesi sulla psicologia delle masse.
Dal Caos al Cosmo e la rappresentazione del margine
L’uomo è caratterizzato dal fatto di non poter sopravvivere esclusivamente sulla base delle sue esperienze percettive ma di essere costretto, in quanto soggetto di parola, a “rappresentarsi” il mondo e se stesso nel mondo.
Rappresentare ha sempre significato per l’uomo nello stesso tempo “dare senso” e “mettere un ordine” nella massa caotica delle sue percezioni del mondo, in una parola, trasformare il Caos in un Cosmo.
Le prime testimonianze che noi abbiamo di un’attività di pensiero dell’umanità non sono altro che delle vere e proprie “cosmogonie”, cioè delle teorie ordinatrici, delle prospettive complessive di senso che sono l’esatto equivalente delle nostre moderne “cosmologie scientifiche”. Il libro della Genesi nella Bibbia è sostanzialmente un racconto cosmogonico.
Che cosa vediamo comparire in queste esperienze primarie dell’umanità, esattamente come osserviamo riproporsi nell’attività primaria di pensiero di ogni bambino? Compare un “dire” che è allo stesso tempo un “disegnare”: a un’attività di pensiero (noi la chiameremmo oggi attività “1ogica”) si accompagna indissolubilmente un’operazione “topologica”, che si traduce in un dare forma e ordine allo spazio assegnando ai vari oggetti un loro preciso posto secondo il criterio fondamentale di un “centro” rispetto a cui si dispongono i vari oggetti della realtà. Un centro e uno spazio ordinato attorno, fino al limite che, in quanto tale, assume la definizione di “margine” dello spazio cosmico rappresentato. Che ogni nostro “dire” sia anche un “disegnare” è legato alla duplicità della nostra attività di rappresentazione, duplicità che ad esempio nella lingua tedesca è ancora testimoniata dall’impiego di due termini differenti : la Darstellung nomina il “rappresentare per immagini” e la Vorstellung si riferisce invece alla “rappresentazione con parole”, che non è altro che la rappresentazione concettuale e simbolica vera e propria. L’immagine di un centro con dei margini è la Darstellung costante di ogni Vorstellung del Caos ridotto a Cosmo ed è impressionante vedere come le più moderne tecniche di raffigurazione degli spazi cosmici sembrano dare corpo e conferma, nel loro mostrare il disporsi dei corpi celesti, a quell’intuizione “figurativa” creata dall’uomo fin dal suo affacciarsi sulla scena del mondo. Il concetto di “margine”, allo stesso modo di quello di “centro”, appare quindi nel nostro orizzonte di senso con una valenza che è funzionale alla possibilità stessa di rappresentare il mondo e non ha di per sé quella connotazione di valore negativo che ha assunto per noi quando parliamo di “emarginazione” e di “marginalità” e comunque, nel tempo, il valore positivo e negativo del centro e del margine non è sempre stato lo stesso.
Di passaggio può essere utile notare che anche gli animali si dispongono nella loro sopravvivenza in un rapporto non casuale con lo spazio, visto che ogni specie si impegna a “disegnare” il proprio spazio in rapporto a quello delle specie limitrofe o coabitanti nello stesso territorio. La differenza sta però nel fatto che il disegnare il territorio da parte di un animale è in realtà un “segnarlo” e non un “disegnarlo” in senso proprio e per lui, come direbbe Gregory Bateson, la mappa coincide con il territorio mentre per l’uomo la mappa rappresenta il territorio ma non vi coincide.
Centro e margine del macrocosmo e del microcosmo: forme moderne della rappresentazione
Il riferimento a un centro è andato sempre più connotandosi di un valore positivo caricando il concetto di “margine” di valenze sempre più negative, anche se di intensità e di colore diversi a seconda dei tempi e dei contesti storicoculturali. Per il nostro discorso ritengo utile richiamare, anche se con estrema concisione, alcune figure della marginalità che appartengono alla genealogia del nostro modo attuale di rappresentare il mondo. Sono “mappe” che riguardano oggetti o spazi diversi ma che a noi interessano in relazione alla questione del “margine” e dei cambiamenti epocali che l’uomo ha operato in rapporto alla collocazione di alcuni valori al centro. Il parlarne ci permetterà di recuperare la nozione di “relatività storicoculturale” del nostro attuale “disegno” e nello stesso tempo ci potrebbe far intravedere come possa prendere senso un nostro interesse a contribuire attivamente alla modificazione di alcuni aspetti che riteniamo non più economici al nostro attuale modo di vivere individuale e collettivo dato che oggi il “margine” della nostra. esistenza si è esteso al di là dei confini di una nazione e ha raggiunto quelli del pianeta e si sta spostando ancora più in là, visto che stiamo pensando e progettando possibilità di sopravvivenza nello spazio. Entriamo nella questione attraverso questa domanda: di quali modelli siamo figli e di quali ci sentiamo orfani? 0 anche in altre parole: a quali dolorose “marginazioni” ci ha portato il nostro pensiero scientifico? Quale ferita ha inferto al narcisismo universale, all’amor proprio dell’umanità?
Non ho trovato formulazione migliore della risposta a questo quesito, di quella fornita da Freud in un breve scritto dei 1916, dal titolo: Una difficoltà della psicoanalisi, da cui traggo questa estesa ma illuminante citazione per illustrare quelle che indicherò come le principali dislocazioni della modernità:
a) la dislocazione copernicana:
“Dapprima, all’inizio delle sue indagini, l’uomo riteneva che la sua sede, la terra, se ne stesse immobile al centro dell’universo, mentre il sole, la luna e i pianeti si muovevano attorno ad essa con traiettorie circolari. L’uomo seguiva in ciò, in maniera ingenua, l’impressione ricavata dalle sue percezioni sensoriali: non avvertiva infatti un movimento della terra, e dovunque volgesse liberamente lo sguardo, si trovava sempre al centro di un cerchio che racchiudeva il mondo esterno. La posizione centrale della terra era comunque una garanzia per il ruolo dominante che egli esercitava nell’universo, e gli appariva ben concordare con la sua propensione a sentirsi il signore di questo mondo.
La distruzione di questa illusione narcisistica si collega per noi al nome e all’opera di Niccolò Copernico nel sedicesimo secolo. Assai prima di lui i pitagorici avevano già dubitato della posizione privilegiata della terra, e Aristarco di Samo nel terzo secolo avanti Cristo aveva affermato che la terra è assai più piccola del sole e si muove attorno a questo corpo celeste. Anche la grande scoperta di Copernico era dunque già stata fatta prima di lui. Quando tuttavia essa fu universalmente riconosciuta, l’amor proprio umano subì la sua prima umiliazione, quella cosmologica (p.660);
b) la dislocazione darwiniana:
“L’uomo, nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di un tale predominio cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse la ragione e si attribuì un’anima immortale, appellandosi a un’alta origine divina che gli consentiva di spezzare i suoi legami col mondo animale. E’curioso come questa presunzione sia estranea tanto al bambino piccolo, quanto al selvaggio e all’uomo delle origini. Essa è il risultato di un ulteriore sviluppo delle pretese umane. Il primitivo, nello stadio del totemismo, non trovava difficoltà a far derivare la propria stirpe da un progenitore appartenente al regno animale. Il mito, in cui si trovano i residui di questa antica forma di pensiero, fa assumere agli dei aspetti animali, e l’arte delle origini rappresenta gli dei con teste di bestie. Il bambino non coglie alcuna differenza tra l’esser proprio e quello degli animali, e non si meraviglia che nelle favole le bestie pensino e parlino; sposta un effetto d’angoscia, che si riferisce al padre umano, su un cane o su un cavallo, e ciò senza il proposito di denigrare il padre. Soltanto quando sarà cresciuto si sentirà così estraniato dagli animali da poter usare i loro nomi per ingiuriare gli uomini.
Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell’uomo. L’uomo nulla di più è, e nulla di meglio, dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale ed è imparentato a qualche specie animale di più e a qualche altra di meno. Le sue successive acquisizioni non consentono di cancellare le testimonianze di una parità che è data nella sua struttura corporea, quanto nella sua disposizione psichica. E questa è la seconda umiliazione inferta al narcisismo umano, quella biologica (ivi);
c) la dislocazione freudiana:
“La terza umiliazione di natura psicologica colpisce probabilmente nel punto più sensibile. L’uomo, anche se degradato al di fuori, si sente sovrano nella propria psiche. Ha creato in un qualche luogo, nel nucleo stesso del suo Io, un organo ispettivo che sorveglia i suoi impulsi e i suoi atti, per controllare se corrispondono alle sue esigenze. Se ciò non accade, tali atti e impulsi vengono inesorabilmente inibiti e trattenuti. La sua percezione interna, la sua coscienza, ragguaglia l’Io su tutti i processi importanti che si svolgono nella psiche, e la volontà, guidata da tali informazioni, dà corso a quanto è compatibile con l’Io, mentre modifica ciò che tenderebbe ad attuarsi in modo indipendente. Infatti questa psiche non è qualcosa di semplice, ma piuttosto una gerarchia di istanze egemoni e subordinate, un groviglio di impulsi i quali tendono ad attuarsi indipendentemente l’uno dall’altro, in corrispondenza della molteplicità delle pulsioni e delle relazioni col mondo esterno, pulsioní e relazioni spesso contrastanti e tra loro incompatibili. E’ necessario, per la integrità funzionale, che l’istanza superiore abbia nozione di tutto ciò che può accadere, e che la volontà di questa istanza possa penetrare ovunque per imporre il suo influsso. L’lo, comunque, si sente sicuro tanto della completezza e fedeltà delle informazioni di cui dispone, quanto dei mezzi col cui tramite rende effettivi i suoi comandi.
In determinate malattie, e specialmente nelle nevrosi che noi abbiamo studiato, le cose vanno diversamente. L’lo si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa casa, nella psiche. Appaiono improvvisamente pensieri di cui non si sa donde provengano; e non si può far nulla per scacciarli. Questi ospiti stranieri sembrano addirittura più potenti dei pensieri sottomessi all’Io, e tengono testa a tutti quei mezzi, pur già tante volte collaudati, di cui dispone la volontà; non si lasciano turbare dalla confutazione logica, né li tange la testimonianza opposta della realtà. Oppure sorgono impulsi che sono come quelli di un estraneo, talché l’Io li rinnega, pur essendo però costretto a temerli e a prender le proprie misure contro di essi. L’Io dice a sé stesso che si tratta di una malattia, di una invasione straniera, e accentua la propria vigilanza; ma non può capire perché gli accada di sentirsi inceppato in una maniera tanto strana.
Le due spiegazioni che la psicoanalisi fornisce “che la vita pulsionale della sessualità non si può domare completamente in noi, e che i processi psichici sono per sé stessi inconsci e soltanto attraverso una percezione incompleta e inattendibile divengono accessibili all’Io e gli si sottomettono” equivalgono all’asserzione che “l’io non è padrone in casa propria”. Esse costituiscono insieme la terza umiliazione inferta all’amor proprio umano, quella che chiamerei “psicologica”. Non c’è quindi da meravigliarsi se l’Io non concede la propria benevolenza alla psicoanalisi e continua ostinatamente a non crederle (ibid.,p.661).
Penso sia abbastanza evidente che la questione in gioco con questi dislocamenti non è qualcosa che, con un’espressione popperiana, riguarda solo “la logica della conoscenza scientifica”. Essi hanno a che fare ancora oggi con quelle che Pascal definiva “ le ragioni del cuore che la ragione non conosce”. Le ferite provocate da queste tre dislocazioni che hanno strappato la terra, l’uomo con il suo Creatore e l’Io dal “centro” del macrocosmo e del microcosmo, sono ancora ferite aperte e continuano a sanguinare, producono sofferenza e richiedono cure.
L’espansione dei margini: tra predazione e riparazione.
I margini del mondo abitato dall’uomo sono andati sempre più estendendosi attraverso un movimento di espansione, di scoperta e di conquista che ha sostanzialmente avuto una nota predatoria e di spoliazione violenta. Ecco come un pensatore collocato alla soglia della modernità, come Giordano Bruno, nel 1584, a quasi un secolo dall’ultimo grande movimento di “ampliamento” dei confini dei mondo rappresentato dalla “scoperta dei Nuovo Mondo”, descrive il carattere che l’uomoconquistatore, che egli simbolizza nella figura mitica di Tifi, il capo degli Argonauti, ha sempre dato al gesto del conquistatore:
“Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per il commerzio raddoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi alfin più saggio quel ch’è più forte; mostrar novi studi, intenti ed arte de tirannizar e sassinar l’un l’altro; per mercé de’ quai gesti tempo verrà, che, avendo quelli a sue spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni”(p. 31).
A questo gesto predatorio del soggetto collettivo posto al centro,cioè detentore dei potere di dominio, se ne è però sempre accompagnato un altro, di segno opposto e complementare. Così come il soggetto individuale si comporta in forme articolate che vanno dal distruggere e dal ferire, al riparare e al curare, anche il soggetto collettivo è un soggetto “composito” e ha sempre avvertito, assieme all’impulso a depredare, anche quello di riparare, di. restituire in qualche modo. E’ qui che io penso si possa collocare l’attenzione e la cura dei soggetti emarginati e delle forme dell’emarginazione in genere. Ogni contesto storico, in modi diversi e segnati da caratteristiche storicoculturali proprie, ha sempre sviluppato questo atteggiamento che potremmo definire di “cura della marginalità”. Nel nostro contesto, è lo Stato moderno che si è addirittura connotato come “Stato assistenziale”.
E’ così nata una figura, quella dell’”operatore della cura”, in quasi tutte le varietà dei contesti sociali economicamente avanzati. Di questo operatore ci sono due forme: quella dell’operatore che riceve un mandato da parte della società e ne fa una professione remunerata, e quella dell’operatore che “volontariamente” e senza compenso economico dispone di parte del suo tempo e delle sue energie per destinarlo alla cura della marginalità.
Sarebbe ovviamente interessante cercare di capire le implicazioni specifiche di queste due posizioni individuali e sociali, ma penso di dovermi limitare a dire qualcosa solo relativamente alla prima di queste due figure.
Le implicazioni soggettive nel “disporsi ai margini”
Appurato che non c’è possibilità di “ordinamento cosmologico”, nelle sue varie dimensioni più o meno “macro”, senza la disposizione di un centro con dei margini, e accertata la presenza di una spinta che, partendo dal centro, tende a “collocare ai margini” gli elementi più deboli di un certo contesto (cosa che avviene anche nel mondo animale), c’è spazio per un’altra domanda: esiste solo un “essere disposti” ai margini, oppure c’è anche la possibilità di una scelta soggettiva di “disporsi ai margini”? Se sì, quali sono le ragioni che possono promuoverla e sostenerla?
La necessità di semplificare mi fa correre il rischio di banalizzare, ma è un rischio inevitabile. Se teniamo presente la doppia dimensione della soggettività, quella individuale e quella collettiva, possiamo avanzare la congettura, piuttosto plausibile, che esistono, al di là dei fattori oggettivi, una serie di fattori soggettivi che si legano alla collocazione marginale di gruppi e di individui.
Il tutto va sempre tenuto, ovviamente, in rapporto a un punto di vista relativo e non assoluto. Ad esempio, rispetto al disegno proprio di una società industriale avanzata occidentale, è indubbio che un gruppo come quello rappresentato dai nomadi e dagli zingari abbia una collocazione di tipo marginale. Però è altrettanto indubbio che questa posizione è sostenuta da elementi di una “soggettività collettiva” come quella propria di questi gruppi che mai penserebbero di accettare una collocazione diversa, anche se venisse loro offerta, in rapporto alla società dei “non zingari” che, ai loro occhi, e dal loro punto di vista, è “marginale” rispetto all’immagine del mondo e di sé che essi hanno. Il che non significa che non ci sia l’opportunità di operare perché, nei punti di “contatto”, ci sia il minor numero di conflitti possibile.
Lo stesso vale per una serie di altre “soggettività collettive”collocate in contesti che le vedono marginalizzate sia per motivi economici ma soprattutto per motivi etnici, di provenienza (si pensi ai gruppi di immigrati provenienti dal terzo mondo), o anche religiosi.
Il prendersi cura non può configurarsi tanto come un portarli verso un’omologazione potenzialmente “centralizzante”, quanto come il progettare offerte mirate a promuovere forme di convivenza più convenienti per tutti, al di là della posizione occupata nella rappresentazione di un certo spazio sociale.
Lo stesso discorso può essere riportato anche a livello delle soggettività individuali. Anche qui, non c’è solo l’evidenza di fattori oggettivi che possono concorrere a collocare qualcuno ai margini, ma ci possono essere diversi e importanti fattori soggettivi che possono portare un individuo a collocarsi attivamente in posizioni ritenute socialmente marginali. Si pensi solo a due esempi per tutti: la tossicodipendenza e lo stato di indigenza. Non si può ragionevolmente pensare che un soggetto si avvii e si stabilisca in questo posizioni che noi riteniamo socialmente marginali, senza che siano implicate delle ragioni soggettive capaci di promuovere e di mantenere un individuo in queste stesse posizioni. Sulle ragioni psicologiche implicate, ritengo che la psicoanalisi abbia contribuito a fare un po’ di luce quando ha messo in evidenza come spesso la possibilità di sopravvivenza psichica di un soggetto stia proprio nel prendere le distanze da un “centro” che è poi essenzialmente costituito dal riferimento a quel luogo centrale che per ogni individuo è originariamente lo “spazio familiare” con la sua terribile “carica incestuosa” – che ha messo a rischio la sua economia di sopravvivenza ( Finzi, 1995). E’ un dato noto a chi ha esperienza con il disagio mentale grave come, in molti casi, il mettersi in situazioni di emarginazione, cioè a distanza da un contesto sociale “normale” a loro disposizione, spesso accompagnato da veri e propri stati di indigenza, permetta a molti soggetti di trovare una loro forma di sopravvivenza proprio grazie al fatto di poter “legare” le proprie energie libidiche, che rischierebbero di travolgerli in uno stato di confusione mentale grave, attorno a un progetto che ha come scopo quello di far fronte alle richieste avanzate dai bisogni primari della sopravvivenza. In questi casi, un approccio di assistenza che mirasse in prima istanza e direttamente a togliere questi soggetti da uno stato di indigenza, senza prendere in considerazione la funzione di equilibrio che tale stato rappresenta per loro, non farebbe altro che provocare una rovinosa caduta in forme di grave scompenso psichico.
Sulle implicazioni soggettive presenti in una scelta come la tossicomania non intendo soffermarmi in quanto sembra essere ormai un fatto acquisito nella cultura di chi si dispone a occuparsene, anche se il fatto di tenerne conto non comporta di per sé una facilitazione, ma semmai una complicazione.
Le implicazioni soggettive nel “prendersi cura della marginalità”
Se è ragionevole ipotizzare l’esistenza di un coinvolgimento della soggettività in chi si dispone ai margini di un dato contesto, a maggior ragione si deve farlo quando si parla di coloro che si occupano della cura della marginalità. Alla base di una scelta professionale come questa non possono non esserci serie implicazioni soggettive. Ora, se si tiene conto di che cosa rappresenta, a livello della soggettività collettiva, il prendersi cura dell’emarginazione, non è difficile vedere che il nucleo delle motivazioni di una scelta individuale di questo tipo non può che ruotare attorno alla questione della riparazione. Il soggetto che fa questa scelta è un soggetto che rivela un interesse personale che ha cioè attinenza con la propria posizione psichica soggettiva rispetto alla questione della colpa e della riparazione non in una forma generica, ma in quella forma specifica messa in campo dalla prospettiva di una marginalità vista come il frutto di un movimento centrale violento e vulnerante. Se posso usare platealmente alcune categorie della psicologia clinica trasportate indebitamente ma a scopi di comprensione dì un fenomeno su un piano sociale, si potrebbe dire che gli operatori utilizzano la scena sociale, nel punto di intersezione rappresentato dalla marginalità, per proiettarvi e rappresentarvi la propria vicenda personale rispetto alla dislocazione nei confronti di un centro. Ogni soggetto, così almeno come se lo rappresenta la psicoanalisi sulla base dell’esperienza della pratica clinica, si struttura attraverso un processo più o meno doloroso e faticoso che lo vede impegnato, come ho già accennato, nel prendere le distanze da quel centro costituito, nella formulazione freudiana originaria, dall’investimento incestuoso edipico. Questo movimento, necessario per la sopravvivenza psichica di ogni individuo, è vissuto però anche come legato a una intenzione minacciante e lacerante proveniente proprio da parte di chi è chiamato a prendersi cura del soggetto: è quella che si chiama “minaccia di castrazione” che ognuno è chiamato a “elaborare” come può. Qualsiasi sia la lavorazione messa in atto, rimane comunque ineliminabile un sentimento residuo di aver ricevuto una ferita, un vulnus più o meno grave che richiede una cura e un lenimento continuo da parte del soggetto. Orbene, tra le vario forme con cui un individuo può dedicarsi alla cura delle proprie ferite psichiche, una è certamente quella offerta dalla possibilità di “prendersi cura delle ferite altrui”.
Questa osservazione riveste una certa importanza perché permette di scartare l’immagine spesso alimentata in passato di un operatore visto come il “campione della salute psichica” e come l’incarnazione dell’altruismo disinteressato. A parte il fatto che l’operatore, fortunatamente per sé e per i suoi utenti, ha un interesse economico che lo guida nella scelta professionale, qui si sostiene che a muoverlo in quella direzione è anche un interesse di natura più profonda come è appunto quello di potersi prendere cura di sé prendendosi cura degli altri.
Questo fatto, indubitabile per la psicoanalisi, di per sé non sembra connotare di un valore negativo o “meno nobile” una scelta di questo tipo: semplicemente ci permette di smentire quell’immagine illusoria di bontà, di dedizione e di disinteressamento altruistico che ha accompagnato per troppo tempo e forse accompagna ancora – la figura di questi operatori.
Ci rimane però da fare un’ultima considerazione: se è vero che in questa scelta è ineliminabile la presenza di un interesse e di una convenienza psichica da parte dell’operatore, è però altrettanto vero che ci possono essere diverse “forme” di questo cointeressamento, e non tutte possono e debbono essere valutate come indifferenti.
I rischi di abuso nella cura della marginalità
Come sempre, è una questione di “quantità” e non di qualità o, se si vuole, di una quantità che determina la qualità. Riportata al nostro discorso, la formulazione può prendere questa forma.: se non si può più distinguere tra un operatore “generosamente disinteressato” e uno “egoisticamente interessato”, si può però pensare, e lo si deve fare, a una diversa possibilità di distribuzione della quantità di interesse “egoistico” su una scala che comprende due ideali punti estremi e numerosissimi punti intermedi.
Se idealmente mettiamo a un estremo l’operatore che “usa” il proprio utente come oggetto da consumare unicamente ai fini di un proprio risarcimento narcisistico personale – o addirittura, in casi fortunatamente limitati, arriva ad “abusarne” perversamente – e all’altro estremo collochiamo l’operatore che può arrivare a dare la propria vita per il suo utente (non certo perché ha rinunciato al proprio interesse ma semplicemente perché ha “sublimato”- scambiando addirittura la propria esistenza terrena – un interesse immediato e concreto a favore di una ricompensa ritenuta più importante anche se collocata in una vita futura), in mezzo tra queste due posizioni ideali estreme si colloca l’infinita varietà delle scelte reali concrete.
Se ci si accorda nel ritenere più “conveniente” non più nobile o più valido, secondo un quadro di valori che finirebbe inevitabilmente per alimentare “guerre di religione” rispetto a un’economia complessa di una società come la nostra, una certa forma di relazione operatoreutente, possiamo arrischiarci a esplicitare quali potrebbero essere i parametri di questa convenienza, lasciando ovviamente a ognuno la possibilità di stabilire altre gerarchie in base al proprio criterio di “convenienza”.
Per quanto mi riguarda mi esprimerei in questi termini: la “relazione di aiuto”, in tutta la varietà delle sue forme, è una situazione che, per il fatto di essere di per sé stessa una “relazione asimmetrica” perché mette in gioco due soggetti caratterizzati da uno stato di bisogno e da un grado di potere disuguali, è una relazione potenzialmente esposta al “rischio dell’abuso”. Di questo possibile abuso non interessa qui sottolineare la quota di complicità, più o meno accentuata, che può esserci da parte del soggetto abusato, cioè dell’utente, ma interessa evidenziare la parte che può giocare l’operatore in quanto possibile agente dell’abuso. In questo senso, il nucleo essenziale attorno a cui può prendere forma, anche se in maniera mascherata, un qualche abuso da parte di un operatore, lo possiamo individuare nella “quota di interesse” (siamo sempre nel campo della quantità) che un operatore mette nella relazione di aiuto come se fosse “dell’altro”- mentre invece è “propria”. Questo comporta che ciò che guida l’operatore é “illusoriamente” il bisogno dell’utente mentre è “realmente” anche se a livello non del tutto consapevole il “proprio interesse”.
Questo scambio quantitativo di quote di interesse assegna alla relazione una qualità che si può definire di “abuso” nel senso che l’economia prevalente che guida e sostiene la relazione è quella dell’operatore e si attua proprio grazie al “valore di uso” che viene assegnato all’utente.
La visibilità di queste forme di abuso non è facilmente accertabile anche perché, proprio nei casi di maggiore rischio, vengono fatti funzionare potenti fattori diversivi che hanno la capacità di “mascherare” la vera natura di una relazione abusante, con la messa in scena di giustificazioni che fanno appello a una convincente “ragionevolezza”, dei tipo: “1o faccio per il suo bene”, “lui non è in grado di sapere che cosa è meglio per lui”, “uno non può essere lasciato libero di farsi del male”, “bisogna dare un senso alla vita”, e via dicendo.
Questi operatori non dovrebbero mai dimenticare la massima di Franz Kafka quando sosteneva che voler guarire il mondo è una grave malattia. Notar l’accento posto sul “guarire”, che è altro dal “prendersi cura”.
Quali antidoti si possono idealmente ipotizzare per una simile malattia?
Ne possiamo indicare sostanzialmente due: uno di natura preventiva, che consiste nello stabilire percorsi formativi che si danno come obiettivo di fornire nozioni metodologiche sulla futura professione in grado di tenere sempre in campo la figura dell’operatore – e non solo quella dell’utente nelle riflessioni teoriche sulla relazione di cura -, di individuare e di dirottare situazioni soggettive palesemente inadatte e pericolose, fornendo ai vari casi alternative adeguate sul piano personale.
Il secondo antidoto è invece inerente alla pratica stessa della professione e riguarda l’offerta, integrata nei tempi di lavoro, di una supervisione intesa come strumento indispensabile per individuare ed elaborare proprio quei rischi di abuso più o meno cosciente da parte dell’operatore ma anche come possibilità di recuperare tutti gli “scarti” che un lavoro come questo inevitabilmente comporta. Senza questo spazio, gli scarti finiscono per diventare tossici e portano quasi sempre a esperienze di burnout (Del Rio 1992; Premoli 1996).
L’operatore pagato per prendersi cura.
Ho detto all’inizio che l’oggetto delle mie riflessioni si limitava all’operatore professionale, cioè a un soggetto che si dedica a una relazione di aiuto assegnandole una valenza lavorativa e, come tale, remunerata economicamente. Questo è un elemento caratterizzante essenziale di questa relazione perché la trasforma da una relazione diadica in una relazione triangolare: non c’è più solo l’operatore e l’utente ma c’è anche il terzo polo rappresentato dalla società. E’ da questa che l’operatore riceve il mandato a operare secondo certi criteri e con la garanzia di un compenso economico.
Questo impedisce all’operatore di rivendicare una ricompensa pretendendo la riconoscenza dell’utente e libera l’utente dal debito verso chi si prende cura di lui.
Non è quindi su di sé che l’operatore dovrà convogliare la riconoscenza del proprio utente perché dovrà segnalargli, a meno di mentire, che il suo prendersi cura “non è disinteressato” e che la riconoscenza dell’utente va indirizzata a chi gli ha assegnato il suo mandato, cioè a quella “soggettività collettiva” che incarna l’istanza di riparare alle ferite procurate dalla vita o dalla parte violenta della collettività stessa.
Se si volesse cercare un “esempio”, un “modello” a cui ricondurre la figura dell’operatore della cura, penso che venga spontaneo per molti pensare alla figura evangelica del “buon Samaritano”. Il ricorso a un testo di questo tipo non è da prendere come il segno di una appartenenza a un credo religioso ma nasce dalla convinzione che esistono dei “testi sapienziali” che sono patrimonio dell’umanità e che mantengono nel tempo un valore prezioso.
In riferimento alla Parabola le cose non stanno come sembra a prima vista e, facendo attenzione, si ha modo di verificare che anche se c’è una figura che corrisponde a un operatore della cura, non è questa che appare in primo piano. Diamo la parola al testo, così come è riportato in Luca ( 10,30-35)
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbattè nei ladri, i quali lo spogliarono, lo caricarono di percosse, poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora, un sacerdote, a caso, scendeva per la medesima strada, lo vide, ma passò oltre. Come pure un levita. sopraggiunto in quel luogo, lo vide e tirò innanzi. Ma un Samaritano, che si trovava in viaggio, gli andò vicino, e nel vederlo, si mosse a pietà. Gli si accostò, fasciò le sue ferite, versandovi olio e vino; poi, fattolo salire sul suo giumento, lo condusse all’albergo ed ebbe cura di lui. Il giorno dopo, prese due denari e li diede all’albergatore, dicendogli: “Abbi cura di lui, e quanto spenderai in più, io te li restituirò al mio ritorno.”
E’ abbastanza evidente che il Samaritano incarna la parte “compassionevole” della soggettività collettiva, mentre è l’albergatore, che riceve il mandato di prendersi cura e viene remunerato per farlo, che funge da modello per l’operatore della cura. L’albergatore del Vangelo, come l’operatore di oggi, non potrà trattenere per sé la riconoscenza dell’uomo soccorso, aiutato e curato, ma dovrà destinarla a chi gli ha dato il mandato, cioè al buon Samaritano.
L’operatore è in quel posto per svolgere un’importante funzione di “riappacificazione sociale” e non tanto per testimoniare una “bontà individuale” caricando sulle spalle del proprio assistito un fardello di “riconoscenza” che assumerebbe per lui la forma di un debito non estinguibile se non nella forma di ridare indietro l’equivalente di quanto ha ricevuto. Come si fa infatti a saldare il conto se questo conto riguarda la riconoscenza?
La capacità di rinunciare alla “riconoscenza” dell’utente è uno degli indicatori della natura “relativamente disinteressata” del desiderio di cura di un operatore professionale, peraltro di difficile realizzazione nella pratica concreta. Ma allora, cosa possiamo pensare dell’operatore “volontario”? E’ una figura che, paradossalmente, merita una riflessione ancora più approfondita perché, senza la mediazione del compenso economico, la relazione di aiuto richiede delle garanzie più solide perché possa essere realmente una relazione “gratuita”, col rischio, tutt’altro che raro, che rappresenti l’occasione per l’operatore di procurarsi una gratificazione narcisistica di “buon Samaritano” senza rispondere realmente alle esigenze della persona a cui presta soccorso.
Bibliografia
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Testo pubblicato nella Rivista Italiana di Gruppoanalisi, N.1/2011, Franco Angeli Editore.