24 Mag 2022 - articoli
Dott. Sergio Premoli, Lei è autore del libro Di chi è la colpa? Le ragioni psicologiche del senso di colpa e del bisogno di punizione, edito da Mimesis: qual è la natura del senso di colpa?
Il senso di colpa è la forma più comune che l’umanità ha utilizzato da quando ha preso forma nell’esperienza umana la risorsa costituita dalla coscienza morale che, nel corso dell’evoluzione, ha subìto delle modificazioni che hanno favorito e accompagnato il processo di incivilimento. Alla coscienza morale gli uomini hanno affidato il compito di segnalare la distinzione tra bene e male, lecito illecito, giusto e ingiusto, con il potere di sanzionare le scelte contrarie al sistema di valori positivi assunto dalla coscienza stessa, sia come strumento individuale che come risorsa di regolazione dei comportamenti sociali codificati in leggi usi e costumi.
Il concetto di colpa ha ricalcato il concetto di causa (in greco infatti la parola aitìa significa sia colpa che causa) applicandolo al campo morale: come nella natura fisica ogni effetto rimanda a una causa, così nel campo spirituale ogni angoscia morale attivata dalla coscienza rimanda a una colpa come causa. Inoltre, l’umanità ha confermato questo nesso causale della colpa in presenza di tutti quei fenomeni che avevano un valore mortificante-punitivo per l’individuo o per la società: la malattia, il dolore, la morte, le calamità naturali come terremoti o pestilenze, sono stati letti come effetti di colpe individuali o collettive. Nella tradizione ebraico cristiana questa esperienza ha trovato la sua codificazione nel concetto biblico del peccato originale e, di conseguenza, nella dottrina del peccato e nella pratica della confessione.
La psicoanalisi ha fornito una comprensione teorica nuova dell’esperienza della colpa con la scoperta dell’istanza psichica del Super che si sviluppa a partire dai 4-5 anni, frutto dell’interiorizzazione della istanza della Legge del Padre, erede dei valori normativi che genitori e della società. Inizialmente la regolazione morale funziona dall’esterno mentre Il Superio si struttura come istanza regolatrice interna che, a differenza delle risorse di regolazione esterna (genitori giudici polizia ecc.) monitora ogni forma di trasgressione, anche le più nascoste come i pensieri, i desideri e le intenzioni.
Quali sono i sentimenti più comuni che si muovono in relazione all’esperienza della colpa?
Il sentimento primario è l’angoscia da senso di colpa, che nasce come “presa di coscienza della colpa”. Lo scioglimento dell’angoscia può avvenire attraverso diverse procedure di elaborazione psichica. La più comune è quella che passa attraverso il pentimento, la confessione della colpa, in forme varie, privata o pubblica a seconda dei casi, la richiesta di assoluzione a fronte del proposito dichiarato di evitare la ripetizione della colpa in futuro e, infine, la penitenza intesa come espiazione della colpa. Io propongo, in maniera argomentata e sulla base della prospettiva teorica della psicoanalisi, di sostituire al senso di colpa il dolore per il danno provocato dalla trasgressione. Questo spostamento consente di sostituire un’economia psichica di natura sostanzialmente narcisistica e sterile, sia per l’individuo che per le società, con un’economia di natura altruistica, che produce non tanto un lenimento a una ferita narcisistica, quanto promuove una vera e propria riparazione del danno provocato dal comportamento immorale.
Questa proposta promuove il passaggio da una morale della colpa a un’etica del danno attraverso la distinzione tra il giudizio di responsabilità, che riguarda la titolarità dell’azione illecita, e il giudizio di colpevolezza, che entra indebitamente nel merito della bontà o malvagità delle persone. Il monito del non giudicare si declina così non tanto come sospensione della capacità di distinguere tra bene e male (giudizio di fatto), ma come sospensione della condanna morale di chi ha commesso una colpa (giudizio di merito). Anche le azioni che assumono la forma grave del reato non sono tali da giustificare la liceità di una condanna morale in quanto, come ci ha insegnato Cesare Beccaria, “la natura del reato non è la colpa ma il danno“ e, di conseguenza, la natura della pena non è il espiazione della colpa (giustizia retributiva) ma la riparazione del danno (giustizia riparativa).
Da cosa nasce il bisogno di fruire di notizie di crimini e misfatti sempre più atroci, per poterci indignare e partecipare all’individuazione contro i colpevoli da condannare “come si meritano”?
Questo bisogno nasce dalla morale della colpa che ci ha de-formati a trovare sempre un colpevole o in noi stessi (raramente) o negli altri (sempre) in modo da avere a disposizione un capro espiatorio da immolare e punire per darci l’illusione di essere innocenti e di credere che il male sia opera di altri, i cattivi e i perversi, da considerare come la feccia dell’umanità. Oltre ad alimentare una illusoria moralità in chi si indigna, tale pratica produce una assuefazione tossica che richiede una escalation nella gravità dei fatti fino a necessitare di fatti orrendi per potersi soddisfare.
C’è chi crede che questa pratica contribuisca ad elevare la sensibilità morale di una società mentre la psicoanalisi ci dice che è fonte di un progressivo indebolimento della coscienza morale in quanto sposta il giudizio di responsabilità sugli altri (si finisce per “vedere la pagliuzza nell’occhio degli altri e non vedere la trave nel proprio occhio”).
È possibile individuare una via di mezzo tra l’indifferenza cinica e l’indignazione moralistica?
Non solo è possibile ma è altamente consigliabile per un motivo di convenienza etica, intesa come convenienza dell’economia della natura, che ci permette di affermare che un’azione è eticamente corretta se non produce un danno a chi lo compie né a qualsiasi altra persona, ma neanche gli altri esseri viventi e infine neanche alla terra tutta. Tale criterio etico va posto alla base della convivenza tra le persone e del rapporto con la natura (come un corretto ambientalismo proclama). Essere spettatori del male del mondo ci chiede di evitare i due estremi, rappresentati dall’indifferenza e dal moralismo, a favore di un sentimento di partecipazione condivisa con il dolore delle vittime (e non tanto con l’indignazione per la malvagità dei carnefici), con la considerazione che nessuno può dirsi sicuro che avrebbe fatto diversamente se si fosse trovato nelle stesse condizioni e con la storia che queste persone hanno le spalle.
La domanda vera che ognuno dovrebbe porsi di fronte agli orrori del mondo è: “perché loro e non io?”, con un sentimento di riconoscenza nei confronti delle circostanze della vita che ci hanno preservato dalla possibilità di diventare operatori del male.
Quali forme accompagnano l’esperienza del perdono?
Esistono due forme di perdono, ambedue valide ma che rimandano una alla morale della colpa e l’altra all’etica del danno. Nel primo caso il perdono si configura come la assoluzione data a un colpevole al quale si decide di non far pagare il prezzo della sua colpa. Nel secondo caso invece il perdono si caratterizza come la non imputazione di colpa a qualcuno che si riconosce responsabile di un danno, anche un reato, al quale si offre la possibilità di riparare il danno senza esercitare il diritto di vendicarsi del torto subìto. L’esercizio del perdono si declina sia a livello individuale che sociale e non elimina la possibilità di esercitare la giustizia.
Individualmente, l’esercizio del perdono si dispiega in varie forme a partire dalle capacità di perdonare se stessi, senza autogiustificarsi, passando attraverso l’offerta del perdono a chi ci ha ferito e, infine, attraverso la richiesta di perdono per le ferite che, spesso involontariamente ma non irresponsabilmente, infliggiamo agli altri.
La vera richiesta di perdono si accompagna non tanto a pratiche di penitenza, volte all’espiazione della colpa, quanto a pratiche di un’adeguata riparazione del danno e di un impegno a rimuovere le cause che l’hanno provocato.
Quali ricadute positive può avere sul complesso delle relazioni di coppia, genitoriali, educative e sociali in genere, il passaggio da una morale della colpa a un’etica del danno?
Nella prospettiva della colpa, che è quella che ci è familiare, di fronte a un comportamento sbagliato la reazione prende questa forma: “cosa hai fatto? Perché l’hai fatto? Non dovevi farlo!” In questo modo la reazione assume la natura di un rimprovero che presuppone il giudizio di colpevolezza, senza fornire il modo all’altro (figlio, alunno, partner che sia) di esporre le ragioni che lo hanno spinto a compiere una certa azione. L’altro si sente pre-giudicato ed è spinto o a negare o a giustificarsi per discolparsi.
Articolo tratto da Letture.org